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viaggi per non vivere senza

giovedì 11 ottobre 2012 alle 16:42

SRI LANKA. L'isola che rinasce ogni giorno

Erano mesi, ormai, che il viaggio era organizzato in ogni minimo dettaglio, sapevamo persino la marca dell’auto, che è però rimasta per tutto il tour “il furgone”, sapevamo dove avremo dormito, dove avremo cenato, eravamo quasi in grado di stabilire l’umore che avremo avuto durante il tragitto.

4 eterogenei viaggiatori, 2 alti ed aitanti, 2 bassotte un po’ clown, 4 enormi valigie e una voglia di ferie che sanguinava, un carico di aspettative per qualcuno, che puntava lo sri lanka dal giorno in cui aveva visto la prima volta il video di Save a Prayer dei Duran Duran, ed era il 1983 e lei aveva 13 anni e non aveva nemmeno una ruga.
Voli Jet Airways scomodi ma economici, puntuali e perfetti, uno scalo a Delhi con le lacrime del ricordo dell’anno prima e della sabbia che l’India aveva tolto dagli occhi, all’arrivo un enorme cartello con il nome dell’allegra combriccola e 4 corone di fiori viola da mettere al collo, degne del funerale più lussuoso.
Prima grande sorpresa, il sole, su quella costa ovest che le guide promettono spazzata da monsoni violenti e piogge torrenziali, ad agosto.
Sosta con pernottamento a Negombo che si credeva tecnica, una specie di pit - stop necessario a caricare le pile dopo un volo lungo ed un anno di lavoro un po’ più lungo, che si rivela invece il primo momento di contatto con quella natura che c’è lì, che vince su tutto, un bagno nel mare quasi in burrasca che sferza, trascina, annega, che ti strappa il costume, che ti apre finalmente il cuore ancora chiuso nell’agenda e dopo quel mare grigio e cattivo si può perdere il caricabatterie del telefono perché lo senti che per 3 settimane potrai anche farne a meno.
Primo lungo viaggio sul furgone che sarà spesso il nostro letto, il nostro divano, la nostra sala riunioni, il nostro tavolo da picnic, il nostro rifugio, la nostra salvezza quando il caldo è tanto da sembrare troppo.
E i primi elefanti, nell’orfanotrofio, tante mamme, tanti piccoli, troppi alla catena, ma inutile chiedere perché, queste montagne di carne che sai che ti potrebbero uccidere con un passo ma che hanno gli occhi più dolci del mondo e quell’unica mano, la proboscide, che ti viene a cercare.
I primi elefanti di una lunga serie di elefanti che fanno il bagno, che si sdraiano nel fiume con i loro milioni di chili e sembra non si alzeranno più, che vengono sfregati da grosse ruvide spazzole da uomini che non capisci se sono servi o padroni o carcerieri ma non ti importa, sei così occupato a carpire con l’obiettivo lo spruzzo proprio nel momento in cui esce dalla proboscide e i gesti d’affetto, le carezze che questi pachidermi si fanno tra loro, carezze grandi perché loro sono grandi, e ti sorprendi che ci sia tanto affetto tra animali così immensi e così poco tra i tuoi simili, ma forse l’avevi solo dimenticato.
E prima di andare via riesci a catturare i giochi dei piccoli elefantini, che sono comunque più grandi della tua lavatrice e sei felice perché ce ne sono tanti, di cuccioli, e allora, forse vuol dire che non si estingueranno mai e provi a toccarli ma gli uomini ti tengono lontana, perché ci sono le mamme, e le mamme con i piccoli possono diventare molto aggressive, e questa è la frase che ricorderai con terrore qualche giorno dopo.
Bastano poche ore di viaggio per capire che lo Sri Lanka è prima di tutto buddista, perché il percorso è costellato di immense statue di un Buddha sempre giovane, sempre magro, sempre drappeggiato, in piedi o sdraiato e così diverso dal Buddha dell’estremo oriente, grasso, sudato, con quell’espressione beffarda, seduto a gambe aperte sulla pancia scoperta.
Visiti città antiche, muri sbrecciati tra i quali stenti a riconoscere le città che forse un tempo sono state davvero, ma che ora sono soltanto pietre accatastate in mezzo al nulla, ed in ognuna c’è sempre un tempio con un Buddha, o affreschi all’interno di grotte, e ci arrivi inseguendo l’odore dolciastro del fior di loto appoggiato su altari disadorni dalle piccole manine di piccolissime donne vestite di bianco e vecchissime, millenarie, forse estinte ma con gli occhi pieni di luce e di una fede che tu ancora stai cercando e che non riesci mai a trovare.
E tra un tempio e l’altro scimmiette dispettose a frotte, che aspettano che ti allontani per dare l’assalto al tuo furgone, appendersi al tergicristallo e giocare a Tarzan, uniche padrone di quegli spazi, e anche loro hanno gli occhi dolci, hanno i piccoli appesi alla pancia e non riesci a non pensare che i loro gesti sono così simili ai tuoi, così umani, tanto umani da farti quasi paura.
Ovunque la natura ha preso il sopravvento, nello sri lanka, alberi giganteschi con mille rami, palme strapiene di cocco, fiori di ogni colore, foglie immense, e le case non ce la fanno ad opporsi a quella natura e forse non vogliono; sono casette piccole, timide, immerse nel verde che cercano disperatamente di farsi notare con colori sgargianti, poco più che baracche, a volte proprio baracche.
Ed eccolo il sasso di Sigiriya, quello dei Duran Duran che credevi non potesse esistere realmente, doveva essere un fotomontaggio, chi mai potrebbe essere tanto stupido da costruire una città su un sasso alto 370 metri in mezzo al nulla; un re, ovviamente, come ti spiegherà quel vecchietto, anch’esso millenario, che ti raccomanderà di indossare robuste scarpe da ginnastica ma che si inerpicherà fin sulla cima con le sue logore infradito, ripetendoti, come una litania “1600 anni vecchio, 500 concubine” sottolineando lo sfarzo del re attraverso le donne che possedeva e ti chiedi che cosa è cambiato, da allora?
La salita è faticosa, anche oggi il sole ha deciso di splendere, un passo dopo l’altro per tutti i 1000 + 2 scalini non smetti neppure per un momento di chiederti chi diavolo gliel’abbia fatto fare a quel bizzarro sovrano, e cominci a pensare che l’essere umano è così, continua a fare cose folli, solo per avere un motivo per essere ricordato, ma lassù c’è un delizioso vento e inizi a credere che ciò che quel re cercava era un po’ di fresco, e che ne è valsa la pensa, perché là in cima, per un attimo, anche tu ti senti padrone del mondo e non sai perché.
Tra una città antica e l’altra, tra un tempio scavato nella grotta ed una gigantesca stupa, si va alla ricerca di animali, parchi naturali che, quelli sì, sono davvero un regno, angoli di giungla intervallati da praterie immense, specchi d’acqua dove si abbeverano placidi bufali totalmente disinteressati al passaggio delle jeep scassate e rumorose, pappagalli, tucani, uccelli dai mille colori, lì scopri che il pavone è capace di volare e non solo di fare la ruota e pavoneggiarsi, che Bambi lo chiamano Bambi anche a 10.000 km da casa tua, ed improvvisamente ricordi che cos’è davvero una famiglia.
Lo capisci quando un grosso elefante ti sbarra la strada, ti si affianca e comincia a ringhiare, che è diverso dal barrire e fa molto più rumore; lo capisci quando vedi la sua grande compagna che quasi corre verso di lui, con il suo cucciolo, e allora ti ricordi che all’inizio del viaggio ti hanno detto che le femmine diventano aggressive, lo capisci quando questi bestioni immensi si fermano, ti guardano dritto negli occhi, iniziano a grattare la terra con la zampa come per attaccarti, con il loro piccolino nel mezzo, protetto, che nessuno potrà ferire, perché loro lo difenderanno a costo della loro vita, fino a che non ti renderai conto che sei troppo piccolo e te ne andrai passando per la strada che ti hanno lasciata libera.
Ma la tua guida, in questi parchi, ha l’obiettivo di farti vedere lui, il leopardo, rarissimo nei mesi della nostra estate, perché sarà il leopardo a fargli guadagnare una mancia più alta; per scovarlo si inerpicherà sui sassi e guaderà i torrenti, incurante delle ecchimosi che ti sta provocando con gli scossoni ed improvvisamente eccolo là, fiero, placidamente sdraiato e consapevole di essere lui, il re, l’attrazione, l’intoccabile, il protagonista del tuo percorso accidentato e sferzato anche dalla pioggia; si alzerà in piedi, si stirerà allungandosi mellifluo, si leccherà via qualche sterpaglia dalla zampa e poi se ne andrà lentamente, elegante, ancheggiando, una diva di Hollywood di altri tempi che rientra in hotel dopo essersi affacciata al balcone ed avere salutato gli ammiratori.
Dopo il leopardo e la sua potenza, qualunque animale non è in grado di reggere il palcoscenico e potrà essere soltanto una comparsa; così l’orso bruno, appena sceso dall’albero e che si avvia verso la tana tutto sgarruppato, traballante e sporco di foglie, quasi un tontolone che ti verrebbe voglia di abbracciare, così simile, oggi, all’orsacchiotto che ha abitato il tuo lettino da bambina.
Così il coccodrillo, che si immerge nel fiume così lentamente da non farlo neppure increspare, e poi scompare alla vista.
Così il camaleonte, che non riesce a mimetizzarsi nemmeno lui, in mezzo a tutto quel verde così acceso, e si accontenta di rimanere grigiastro e quasi si fa toccare, quasi a voler essere lui, il protagonista della tua storia.
Lungo il percorso che ti porta ad est, verso il mare di Trincomalee, si percepisce la guerra di 25 anni che ha devastato questa terra bellissima, ma che per fortuna si ostina a rinascere dalle proprie ceneri sempre più rigogliosa; strade accidentate, piene di buche e costellate di presidi militari che non capisci che cosa ci facciano ancora lì, vecchie trincee ogni 10 metri a difendere non capirai mai cosa, perché lì c’è poco o niente, il disagio di trovarsi su quel percorso, ultima roccaforte delle tigri Tamil, lo percepisci anche dallo sguardo dell’autista, oggi più duro e più stanco, forse si sta chiedendo perché diavolo questi stupidi turisti italiani hanno voluto deviare il percorso classico e tranquillo di tutti i tour operators dell’isola.
Quando intravedi il mare, al di là del filo spinato, oltre un cancello chiuso con un lucchetto, ai piedi di un allegro e coloratissimo tempio induista davanti al quale sta ancora parcheggiato un carrarmato con il suo soldato a bordo, ti si riapre il cuore.
Il sole, anche oggi il sole, splende su una spiaggia immensa mentre passi 2 ore a cercare di finire il granchio più grande e più buono del mondo; per un attimo ti sembra di non essere lì ma su una qualunque spiaggia di una qualunque costa e ricordi di essere in sri lanka solo verso sera, quando vedi passare una mandria di mucche sulla riva, o durante la cena, mentre cerchi disperatamente di evitare lo sguardo di due cani affamati ai piedi del ristorante, scacciati dai camerieri, fino a che non ce la fai più, ti riempi il piatto per la terza volta e senza farti vedere corri sulla spiaggia a cercarli, quei cani, e stai a guardarli mentre divorano in un attimo il tuo piatto, quasi che fosse il loro ultimo pasto, o forse il primo.
E dopo il mare, la montagna, proprio nell’attimo in cui avevi preso confidenza con quel caldo torrido ed avevi imparato a convivere con le gocce di sudore che ti scorrono ogni istante lungo la schiena, ecco, insospettabile, il freddo, anch’esso umido, di Nuwara Eliya e della fine del mondo.

Ci arrivi passando attraverso piantagioni di the sterminate, colline verdissime e splendide intervallate da qualche cascata e da piccole baracche di frutta che continuano ad attirare la tua attenzione come il primo giorno; l’autista ti fa assaggiare l’ennesimo frutto sconosciuto, questo è il turno del jackfruit, l’enorme, ma con un sapore così dolce e timido da non sembrare così grande.

Alla fine del percorso, dopo una levataccia prima dell’alba, imbacuccato in tutto ciò che può tenerti caldo, mentre maledici la tua valigia in cui manca un maglione degno di questo nome e ti chiedi per quale motivo tu sia costretto ad alzarti così presto il 24 di agosto, quando il furgone si ferma e ti scarica all’inizio di quello che sai sarà un faticoso percorso a piedi di oltre 4 km in salita, ecco che immediatamente l’isola ti ripaga di tutto.

Un meraviglioso cervo con le grandi corna di peluche si staglia solitario lì a due metri, placido, per nulla intimorito, raccoglie dalle tue mani le banane che dovevano essere metà della tua colazione, mentre un corvo ruba i tramezzini che erano l’altra metà, che avevi abbandonato per un istante su un muretto; e questo incontro sarà la molla che ti spingerà a percorrere quei faticosi 4 km di cielo, boschi e silenzio, in cui puoi evitare di parlare e limitarti ad ascoltare gli strani rumori della natura e finalmente arrivi lassù, a worl’s end, 2000 mt dai quali puoi vedere un panorama che ti toglie il fiato, in un silenzio infinito.

Ce l’hai fatta ad arrivare prima delle 9, quando tutto si riempie di nebbia e nuvole, ed alle 9 in punto eccola lì, la nebbia che corre verso di te e copre tutto, la valle, il fiume, le colline e poi rimane solo lei, non ci credevi, ma è così.

 

E lungo la discesa ancora un cielo di un azzurro che non ricordavi nemmeno più, e le solite cascate, e prati sterminati e un iguana appoggiato su una foglia che fa della gran finta di niente e la fatica ti prende e mentre scendi, risali sul furgone e benedici quella banana che avevi dimenticato lì e che potrebbe salvarti da una fame che ti sembra atavica, eccone un altro di cervo, questo è Raja, sta sempre lì a salutare i turisti, e anche il resto della tua colazione lo fai finire nella sua pancia …

Non ci sono le città, nello Sri Lanka, ci sono i paesotti accatastati con i mercatini a cielo aperto e quei negozietti, dei bugigattoli bui e strettissimi che non vedi più da anni, nei quali si vende di tutto, dall’innaffiatoio al riso ma nei quali non riesci mai a trovare ciò che cerchi e allora ne esci con il the e le spezie, come al solito, come se non ne avessi la valigia già strapiena.

Ogni percorso riserva sorprese, bambine con le trecce e la divisa bianca della scuola che aspettano un decrepito pullman strapieno e che ti salutano con i loro bianchissimi sorrisi, bancarelle di pesce fritto, lamiere con pesci ad essiccare, pescatori con le braccia infilate dentro ai tonni, vecchiette minuscole e storte con i loro sacchettini di arachidi anch’esse minuscole e storte, case dipinte con i colori delle caramelle, vecchie città coloniali decrepite, erose dall’umidità e dalla salsedine, testimonianza di un colonialismo continuo, inglese olandese, porti silenziosi dove continuano a volteggiare i corvi, che con il loro gracchiare, sono la tua colonna sonora da sempre, da quando sei arrivato.

E’ nella costa sud, lungo la strada costiera che fiancheggia il mare arrabbiato, che riesci a vedere le tracce tangibili di quella immensa onda che ha fatto 50.000 morti; le vedi nelle innumerevoli case ancora diroccate, cumuli di debole cemento che si è sgretolato in un attimo e che nessuno ha avuto la forza di ricostruire, le vedi nelle palme piegate quasi fino a terra che hanno deciso di sopravvivere, le vedi nelle decine di muratori che continuano a costruire inerpicandosi su impalcature improvvisate, senza alcuna protezione, che hanno come unico presidio Buddha e le loro infradito, le vedi in quella nature ed in quegli alberi che continuano a crescere, che non si sono arresi, nei rifugi per le tartarughe che sono stati spazzati via e che sono stati ricostruiti, nelle tartarughe che continuano a nascere e che, quando hanno un solo giorno di vita, puoi tenere in mano E le vedi nelle tombe, improvvisate, solitarie, che stanno lì, a pochi metri dalla spiaggia, lungo tutta quella costa martoriata, tombe che sono la prova che non c’erano cimiteri a sufficienza per tutti quei morti.

C’è così tanto, nello Sri Lanka, così tanta natura, così tanto mare e tanta bellezza, che ti sembra di non avere i polmoni abbastanza grandi da poterla respirare tutta, quest’isola, benedetta e maledetta che non hai mai pace, che fa la guerra, ma che in qualche modo vince, che non si lascia sopraffare dalle città, soffocate e che non potranno mai prendere il sopravvento, che ti lascia con un sorriso, chiedendoti quando ritornerai.

by BB il giovedì 11 ottobre 2012 alle 16:42 Commenti ( 6 )


giovedì 11 ottobre 2012 alle 16:28

India del nord. Quello che le guide non dicono.

 

QUELLO CHE LE GUIDE NON TI DICONO
Quando decidi di andare in India, devi prima aspettare di essere pronta, ma un giorno ti svegli, c’è il sole, il tuo mondo ti sta stretto, ed improvvisamente decidi di partire.
L’organizzazione del viaggio è  faticosa e millimetrica, quando decidi di viaggiare sui treni dell’India, quelli vanno prenotati con settimane di anticipo, devi stare in prima classe se vuoi evitare sorprese, e le sorprese, lì, sui treni, sono sempre dietro l’angolo, spesso hanno 4 zampe e il pelo grigio, a volte ne hanno di più e le ali, ma non sono gattini, né farfalle …
Eravamo 2 donne ed eravamo spaventate da morire;  arrivate a Delhi, di notte, ci siamo chieste prima di tutto per quale motivo non avessimo deciso di andare a Formentera.
Il taxi inviato dall’hotel era stipato di enormi zanzare, l’autista non parlava alcuna lingua se non la propria, peraltro totalmente sprovvista di vocali, la gimcana tra tangenziali piene di buchi, mucchi d’immondizia e un caldo di quelli che vorresti strapparti i capelli dalla testa, sembrava non poterti portare da nessuna parte.
La guest house si trovava in una zona spaventosa, in una strada praticamente ancora in costruzione, buia, tutta voragini, pozzanghere, calcinacci, impalcature e cani randagi; ci siamo dette, aspettiamo domani, se Dio non arriva, un last minute per l’Italia non costerà poi così tanto …
Con la luce, tutto ha cominciato ad apparire meno difficile; le persone, lì, in quella minuscola guest house, avevano qualcosa di strano: erano gentili, disponibili, amichevoli, preoccupate che avessi tutto ciò che ti serve per essere felice, che le uova fossero cotte a puntino, che il getto dell’acqua della doccia fosse abbastanza potente, che sapessi come muoverti in quell’assurda città; ci sono voluti 2 minuti per decidere che ce la potevamo fare.
Ed è importante trovare un albergo con gente simpatica a Delhi.
Perché Delhi è l’inferno.
Ammassi di persone che tentano di venderti qualunque cosa, strade intasate da mezzi di locomozione di ogni tipo, mucche, cani, pecore, risciò, biciclette, motorini, tuc tuc, pullman e tutti, dico tutti, compresi gli animali, non fanno altro che suonare ininterrottamente il clacson o qualunque cosa sia in grado di emettere un rumore fastidioso.
Delhi è questa, è proprio quella che ti immagini, e che un po’ temevi.
La parte vecchia, un intrico di stradine strette piene degli odori di chi ci vive, piene dei colori di qualche aquilone incastrato tra le migliaia di fili elettrici che avvolgono ogni casa alla rinfusa, piene di uomini che sembrano avere 200 anni, di donne avvolte in sari multicolore; se entri in un cortile puoi trovare una ragazza che stira mucchi di camicie con un vecchio ferro a brace, o un uomo intento a pregare rivolto al muro, e in quel muro c’è una grande crepa, e nella grande crepa un piccolo tempietto con una minuscola statuina rossa che sorride beffarda.
La parte nuova, un cantiere continuo e inesauribile, lo strenuo tentativo di assomigliare ad un’altra città, senza capire quale, non c’è strada, non c’è angolo che non abbia voragini, che non abbia operai che trasportano cataste di cianfrusaglie grandi quanto il pianeta.
E ovunque cliniche, ospedali, strutture modernissime con le attrezzature più all’avanguardia; e ti chiedi come sia possibile che questo, possa convivere con quello.
Le strade, le autostrade, spesso a molte corsie, troppe corsie, sono costantemente intasate e stipate di essere umani e animali, non esiste destra o sinistra, non esiste precedenza, non ci sono regole, i semafori stanno lì a puro scopo decorativo, semplicemente ci si butta in strada, alla velocità massima possibile, ci si attacca al clacson e si prega: di arrivare in tempo, di arrivare a destinazione, di arrivare tutti interi, ma anche solo di arrivare.
Rientrare in albergo, la sera, diventa come tornare a casa, quegli sconosciuti dei quali la mattina hai diffidato, che ti hanno offerto un passaggio che hai rifiutato perché fiutavi la fregatura dietro il sorriso, improvvisamente diventano i tuoi fratelli e non vorresti lasciarli mai.
L’India, nei primi giorni, è tutto ciò che non riesci a prevedere, è aerei costantemente quasi persi, non si sa perché, è treni presi sempre letteralmente al volo, perché non è vero che i treni in India sono sempre in ritardo, loro sono puntuali, sei tu che non riesci mai ad arrivare, che ti trovi su un taxi che non riesce a sbrogliarsi dall’intrico di mucche, ed ha iniziato a piovere e le pozzanghere sono dei torrenti, sei tu che non hai capito che a Delhi ci sono 2 stazioni che hanno lo stesso nome e tu sei in quella sbagliata, sei tu che non lo sai che i treni hanno 1000 vagoni e sono lunghi chilometri e non arriverai mai nel tuo scompartimento.
A volte nelle stazioni trovi un angelo custode. Un vecchietto che pesa meno di te, ma che ha 1000 anni in più, che vedendoti bagnata di sudore e con i lacrimoni che ti scendono per non riuscire a capire quale dei 600 binari che ti stanno intorno sia quello giusto, e già stai pensando di sceglierlo tirando la monetina, dà un’occhiata fugace alla tua prenotazione, si carica la tua valigia di 30 chili sulla testa e si mette a correre alla velocità del fulmine, su e giù per scale interminabili, tra bivacchi di bambini e carrelli di bagagli, tra vagoni bestiame che contengono esseri umani e donne tintinnanti di bracciali che sistemano il sari sulla spalla, e in un attimo sei sul treno, solo grazie a quell’angelo custode, che grazie a quella corsa forsennata, anche stasera riuscirà a nutrire i suoi figli.
E poi sui treni la tua valigia diventa più grande e più pesante, e ti ritrovi una minuscola cuccetta sopra quella di un Ministro che viaggia con sua moglie, che di lì a poco saranno accolti dal capotreno con il saluto militare, che ti offriranno i loro snack, che scenderanno dal treno all’alba, e per non svegliarti si vestiranno piano, senza accendere la luce.
Ed è lì che capisci la vera ricchezza del potere, quella del silenzio, dell’educazione e del rispetto per il prossimo, chiunque esso sia, anche una ragazza italiana, rumorosa, sudata e stanca.
Improvvisamente un giorno arrivi sul Gange, a Varanasi, e lì ti rendi conto che la tua scala di priorità inizia a scricchiolare.
Capisci che con quello che hai speso per l’ultima pizza, a casa, lì una madre può mandarci i figli a scuola per mesi.
Soltanto a Varanasi puoi capire cosa sono veramente i colori, che cosa sono gli odori, cosa può dire realmente uno sguardo.
Un attimo prima sei in un ingorgo e non riesci, a piedi, a levarti da un incrocio in cui sembrano essere confluiti tutti gli esseri viventi e tutti i mezzi del mondo, non riesci a parlare con chi ti sta a un centimetro perché la tua voce è soffocata da rumori che non hai mai sentito.
E un attimo dopo sei sulla riva limacciosa di quel grande fiume che sembra il mare, un mare marrone, e vedi passare sulla superficie il cadavere di una pecora.
E non capisci dove sia la sacralità di questo fiume finchè non ti accorgi, all’alba, delle migliaia di pellegrini che sono arrivati qui, dopo giorni di cammino, per bagnarsi in quelle acque puzzolenti.
E tutto diventa arancione.
E allora ti rendi conto che credere è qualcosa di diverso da quello che ti hanno sempre insegnato; credere è credere e basta, è non vedere e non sapere, ma lasciarsi semplicemente andare senza cercare di capire, è un’esplosione di colore, è un canto infinito che non sai da dove arriva, è una colonna di bufali che fanno il bagno, è l’immensa scalinata del ghat ricoperta di abiti stesi lì ad asciugare, è le collane di fiori bianchi e fucsia che ti stanno tutte intorno, è gli ombrelloni di bambù con sotto bramini vecchissimi, che ti benedicono tra i fumi dell’incenso, è il negozio del barbiere fatto solo di uno specchio, di un pennello e di sapone lì all’aperto, in mezzo al nulla, in mezzo a tutto.
A Varanasi ci sono gli dei, ce ne sono migliaia e ti sembra di sentirli, sbucano sorridenti da minuscoli tempietti in ogni pertuglio e ti accompagnano lungo il tuo cammino nelle strade strettissime, che se incontri una mucca devi per forza tornare indietro.
A Varanasi ci sono le donne colorate, sedute sulla soglia delle loro case fatte di nulla, che intrecciano fiori o puliscono verdure o si limitano a stare lì.
A Varanasi ci sono i bambini belli, con gli occhi neri giganteschi e i denti bianchissimi, scalzi, vestiti di stracci, nudi di stracci, che giocano con l’aria.
A Varanasi, al crepuscolo, ci sono le cremazioni all’aperto sul fiume, le pire incendiate che ti rapiscono, e non riesci a non guardare le persone che bruciano lentamente tra le fiamme alte e che quando la pelle e la carne ormai non ci sono quasi più, vengono ripiegate su se stesse, come maglioni, e i resti, anche quei resti, vengono gettati nel Gange, così pieno di morte, così pieno di vita.
A Varanasi, la sera, ci sono le cerimonie di investitura dei nuovi bramini, con le preghiere, l’incenso, i fuochi e le luci di mille candele appoggiate sul fiume.
A Varanasi non c’è la speranza, c’è lo svegliarsi alla mattina per arrivare a sera, senza nulla nel mezzo.
Te ne devi andare da lì se non vuoi essere rapito, se non vuoi cominciare a desiderare di passarvi il resto della vita, dimenticando per sempre il tubo che gocciola, la bolletta da pagare, l’agenda degli appuntamenti, i compleanni delle amiche, l’autunno, l’inverno, il Natale.
Ma quando te ne vai senti una stretta al cuore, arrivi a provare invidia per le “vedove di Varanasi” donne che non hanno di che vivere dopo la morte dei loro mariti, e che vengono portate lì nella città santa, in attesa che la morte le prenda e le liberi per sempre dalla sofferenza di vivere.
E allora raccatti i tuoi quattro stracci, il tuo modernissimo trolley pieno di abiti che sono diventati inutili dopo che ti hanno insegnato come avvolgerti in un sari, e sali su un treno lentissimo che ti porterà via da tutto quanto, così lontano da te, ma che aveva acquisito un senso, l’unico senso possibile, che ti aveva acceso la luce.
Quando arrivi nel Rajasthan, ti sembra già di averla capita l’India, la fronte corrugata ha lasciato spazio a una grande pace, forse uno piccolo, di quegli dei, magici e multiforme, è venuto con te, si è infilato di soppiatto nella tua tasca e ha deciso di farti compagnia.
Perché ora è tutto più facile.
Smetti improvvisamente di vestirti di nero e ti ricopri dei colori della città azzurra, della città bianca e della città rosa, hai imparato a parlare con le persone, hai imparato a capirle e a farti capire anche se le vostre lingue sono lontane, hai imparato che non c’è da aver paura di quella miseria, una miseria senza via d’uscita, hai imparato che in quella miseria c’è un’infinita ricchezza, che tu non avrai mai, c’è una pace e c’è una rassegnazione, c’è l’ombra di secoli di colonialismo, di oppressione, di schiavitù che ha lasciato cicatrici sui visi delle persone, ma in mezzo ad occhi che ridono.
Passi le ore a parlare con loro, i tuoi pomeriggi con i bambini, cercando di convincerli ad andare a scuola, perché la scuola è più importante delle 4 cartoline vendute ai turisti durante il giorno; ma i loro argomenti saranno sempre più forti dei tuoi, i loro argomenti sono la fame, sono i loro cinque, dieci, cento fratelli, sono la loro mamma di 18 anni ed il loro papà che ha trovato lavoro in una città lontana per un mese, e dorme tutte le notti sull’asfalto sul davanti del cantiere, per non perderlo.
E la loro fame ha un sorriso più aperto della tua disillusione.
E i loro occhi hanno una luce più viva di quella dei nostri bambini, seduti sul divano a sgranocchiare merendine davanti ai videogiochi.
Tutto questo, le guide non te lo dicono.
Centinaia di pagine che non riescono a raccontare come ti si scioglierà il cuore, nell’India dei bambini e dei sorrisi, e dei colori e delle mucche e del cielo, che non ti danno le istruzioni per ricostruirlo, quel cuore a pezzi, ridotto a un moncherino ma pieno di una bellezza e di una pace che non riesci più a ricordare in che cosa l’hai vista, ma l’hai vista, era ovunque, e ti resta dentro e non ti lascia più.
 

by BB il giovedì 11 ottobre 2012 alle 16:28 Commenti ( 7 )



  

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